Le luci dello studio televisivo sono lame di ghiaccio. Scolpiscono i volti con una precisione spietata, trasformando il set in un’aula di tribunale high-tech, un’arena moderna per esecuzioni pubbliche. L’aria è carica di un’elettricità statica che precede la tempesta. Al centro di questa arena, seduta su una poltrona di pelle bianca, c’è Giorgia Meloni. È un blocco di granito. Il suo tailleur nero è un’armatura, la sua postura un muro. È una belva in gabbia, costretta ad ascoltare il ronzio di un insetto prima di poterlo annientare.

Di fronte a lei, proiettata su un maxischermo che la fa sembrare un’icona giudicante, c’è Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite. È collegata da Ginevra, la sua immagine è impeccabile, la sua espressione è di una calma, quasi ascetica, superiorità. Non sembra una donna, ma un’istituzione. Un tribunale vivente venuto a emettere un verdetto.

Il conduttore, teso, rompe il silenzio. “Signora Albanese, il suo ultimo report usa parole che sono macigni. Lei accusa l’Italia, senza mezzi termini, di complicità in genocidio. È un’accusa di una gravità inaudita”.

La Albanese annuisce, regale. La sua voce è calma, precisa, tagliente come il vetro. “Non si tratta di un’opinione personale,” esordisce, “ma delle conclusioni di un’inchiesta rigorosa. E i fatti incontrovertibili ci dicono che l’Italia si è resa tecnicamente complice di atti che rientrano nella definizione di genocidio”.

A quella parola, “genocidio”, Meloni ha un fremito impercettibile. L’inquisitrice continua, la sua voce piatta rende l’orrore delle sue parole ancora più agghiacciante: “Mentre a Gazza si consumava un massacro, il governo italiano ha continuato a onorare contratti di forniture militari. Secondo la convenzione del 1948, fornire gli strumenti della morte mentre è in atto uno sterminio si chiama complicità”.

L’attacco, già durissimo, diventa personale. Crudele. La Albanese trafigge la telecamera, mirando dritto alla fede della Premier. “E ciò che umanamente trovo più sconcertante, presidente Meloni, è l’ipocrisia. Lei parla ogni giorno di difendere le radici cristiane, la sacralità della vita, i bambini. Eppure, di fronte a migliaia di bambini innocenti fatti a pezzi, smembrati, lasciati a morire di fame… le vostre radici cristiane sono improvvisamente seccate. Sembra che la vostra carità cristiana sia a intermittenza. Di fronte ai bambini di Gazza, il vostro Dio sembra essere andato in vacanza”.

È un colpo basso, velenoso, studiato per ferirla sul suo terreno più sacro. Meloni stringe la penna tra le dita fino a farla scricchiolare.

Ma la relatrice ONU non ha finito. Passa all’attacco politico. “La vostra posizione non è mai stata autonoma. È sempre stata dettata da Washington. Avete riempito le piazze con la parola ‘sovranità’, ma vi siete rivelati per quello che siete: i più fedeli e ubbidienti esecutori della volontà americana. Avete finito per appoggiare una pace che è un diktat imposto dal vostro protettore, Donald Trump. Non siete stati partner di pace, siete stati i notai di un’ingiustizia”.

Infine, l’affondo più infamante. Quello che mira a demolire la sua umanità, accusandola di razzismo. “Tutto questo rivela una verità terribile: applicate due pesi e due misure. Ci sono vittime di serie A e vittime di serie B. E viene da chiedersi: perché? È perché sono arabi? È perché sono musulmani? La vita di un bambino di Gazza vale forse meno ai suoi occhi della vita di un bambino di Kiev? Le sue politiche, e i suoi silenzi, suggeriscono una risposta che fa rabbrividere”.

Francesca Albanese ha finito. Ha emesso la sua sentenza. Si appoggia allo schienale, sicura di averla distrutta. Nello studio, il silenzio è assoluto.

Giorgia Meloni rimane immobile. Assorbe ogni stilla di veleno. Poi, con una lentezza esasperante, posa la penna. Alza la testa. Il suo volto non è più una maschera, è un campo di battaglia. E i suoi occhi non sono arrabbiati. Sono fiamme fredde.

Sulle labbra della Premier nasce un sorriso. Un sorriso lento, che si allarga fino a diventare un ghigno di gelida, predatoria superiorità. L’imputata è diventata il cacciatore.

Quando parla, la sua voce è un sibilo. “Ho ascoltato con grande attenzione il suo comizio, signora Albanese,” esordisce, calcando sulla parola “comizio” con un disprezzo palpabile. “Ho ascoltato il suo processo all’Italia, la sua sentenza emessa dall’alto del suo pulpito morale. E sono quasi ammirata. Ammirata dalla sua capacità di ignorare la realtà per farla aderire alla sua piccola, fanatica visione ideologica del mondo”.

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La prima stoccata è andata a segno. La Albanese aggrotta la fronte, colta di sorpresa.

Meloni ora si carica di elettricità. “Lei mi accusa di complicità in genocidio. Lei, che vive di cavilli e di report scritti al caldo, osa usare questa parola infame e sputarla in faccia a un’intera nazione. E mentre lei scriveva, sa cosa faceva l’Italia, signora inquisitrice? L’Italia era la prima nazione al mondo a inviare una nave ospedale al largo di Gazza! I nostri medici, i nostri militari, erano lì a salvare vite, a operare. Le mani dei nostri chirurghi erano sporche del sangue di quei feriti!”.

L’ha colpita con la forza bruta dei fatti. “E non è finita! Perché mentre lei ci processava, noi aprivamo i nostri confini. Abbiamo preso i bambini palestinesi feriti, mutilati, orfani, e li abbiamo portati qui, negli ospedali italiani. Curati dai nostri migliori medici. Con i nostri soldi. Con il nostro amore”.

Ora si sporge in avanti. “Allora la guardi bene questa faccia, signora Albanese. La guardi negli occhi e mi dica: è questa la faccia di una complice di genocidio? È questo che fa una nazione razzista che considera i bambini arabi vittime di serie B?”.

L’attacco è devastante. La Albanese prova a balbettare qualcosa, a parlare di “gesti insufficienti”. Meloni è un torrente in piena. “SILENZIO! Non si permetta di sminuire la generosità del popolo italiano per salvare la sua miserabile tesi! Lei non sa nulla, lei vive di astrazioni!”.

Ora Meloni si alza in piedi. È una furia. “E mi dà lezioni di cristianesimo? Proprio lei? Lei che appartiene a quelle élite laiciste per cui la nostra fede è solo un retaggio folkloristico? La nostra carità cristiana non sono le sue parole vuote! La nostra carità erano le flebo infilate nelle braccia di quei bambini! Erano le bende sulle loro ferite! Lei dovrebbe solo sciacquarsi la bocca prima di nominarla!”.

L’accusa di ipocrisia è polverizzata. “E la sottomissione agli Stati Uniti? La pace di Trump? Certo che l’abbiamo appoggiata! E sa perché? Perché mentre voi, dalle vostre torri d’avorio, producevate inutili report, la gente continuava a morire! Noi abbiamo scelto di fermare il massacro, non di analizzarlo. A differenza sua, a noi non interessa compiacere i salotti radical chic di Ginevra, a noi interessa la vita delle persone. La vostra non è superiorità morale, è irresponsabilità criminale!”.

Infine, l’accusa di razzismo. La voce di Meloni torna bassa, carica di disgusto. “L’accusa più infame. Con questo ha dimostrato di non essere una relatrice ONU, ma una volgare propagandista. Lei usa l’arma dell’antirazzismo come un sicario, per colpire alle spalle. Ma quando accusa l’Italia di razzismo, non sta offendendo me. Sta offendendo un popolo intero. E questa è un’offesa che non le sarà perdonata”.

Lo studio è una voragine di silenzio. La Albanese è impietrita. La sua maschera di superiorità si è frantumata. L’inquisizione si è trasformata in un processo contro di lei. Ha perso. E, nella disperazione, sta per commettere l’errore fatale.

L’argine della sua freddezza istituzionale cede. La rabbia, a lungo mascherata, erompe sguaiata. Si alza in piedi di scatto. “BASTA!” sbraita, la voce stridula. “Basta con questa disgustosa propaganda nazionalista! Lei usa i bambini, usa la tragedia per aizzare la folla contro le istituzioni internazionali!”.

Meloni la osserva, immobile. La sua calma è terribile. La Albanese, ormai fuori controllo, gesticola furiosamente. “Lei parla a nome del popolo, ma quale popolo? Quello che lei nutre con slogan facili perché non è in grado di capire la complessità! Lei può urlare, ma le sue non sono le parole di una statista! Sono i capricci di una bambina a cui hanno dato un giocattolo troppo grande!”.

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Si china verso la telecamera, il volto deformato dal disprezzo, e pronuncia la frase che segna la sua fine. “Le dico una cosa… Se l’Italia di oggi ha il suo volto, allora l’Italia è una vergogna per l’intera umanità”.

La bomba è esplosa. Un insulto di una gravità inaudita. Non al governo, alla Nazione. Il pubblico in sala ha un moto di sdegno.

Giorgia Meloni non si scompone. Non urla. Per un istante, chiude gli occhi. È come vedere una stella collassare su se stessa. Tutta la rabbia viene risucchiata, compressa, trasformata in un buco nero di freddezza istituzionale.

Quando riapre gli occhi, il suo sguardo è cambiato. È lo sguardo di chi ha smesso di essere una persona e si è fatta incarnazione dello Stato.

Lentamente, si alza in piedi. Ignora la Albanese. Guarda dritto in camera, parlando direttamente agli italiani. “Avete sentito,” dice, la voce ferma, solenne. “La signora non ha insultato me. Ha insultato voi. Ha insultato tutti noi. Ha insultato la nostra storia, i nostri padri, i nostri figli. Ha insultato l’Italia”.

Fa una pausa. Poi, per la prima volta, sul suo viso compare un sorriso. Ma è un sorriso di ghiaccio, di pura, abissale pietà. “E per questo, signora Albanese,” riprende, la voce funerea, “il nostro dibattito finisce qui. Adesso”.

Resta in piedi, torreggiando sulla scena. “Potrei stare qui un’altra ora,” continua, quasi didascalica. “Potrei prendere il suo pamflet ideologico e smontarlo pagina per pagina, menzogna dopo menzogna. Potrei farle i nomi, uno per uno, dei bambini palestinesi che i nostri medici hanno operato. Potrei umiliarla ulteriormente. Ma a cosa servirebbe? Sarebbe come sparare su un cadavere. Inutile. E, mi perdoni, inelegante”.

La sua voce è una lama di ghiaccio. “Lei ha varcato un confine. Lei non ha insultato me, il Presidente del Consiglio. Lei ha insultato la mia Nazione. E quando si insulta l’Italia, si perde il diritto di essere un interlocutore. Si diventa irrilevanti. E per questo, lei, da questo momento, ha smesso di esistere”.

Con un gesto secco, chirurgico, si slaccia il microfono. Non lo getta. Lo appoggia delicatamente sul tavolo, come un chirurgo che depone un bisturi.

Senza aggiungere una parola, senza degnare più nessuno di uno sguardo, si volta e abbandona lo studio. I suoi passi, scanditi dai tacchi sul pavimento lucido, sono gli unici suoni in un silenzio tombale. Non sono i passi di una donna che fugge. Sono i rintocchi di una campana a morto.

Ha lasciato che fosse la sua avversaria a distruggersi da sola, a bere il suo stesso veleno. L’ha lasciata lì, sola, sotto i riflettori impietosi, a fare i conti con la vergogna delle sue stesse parole. Trasformata da giudice a imputata. Un fantasma che parla, ormai, nel vuoto.