Scontro Epico a Bruxelles: Meloni umilia Steinmeier. “L’Italia non è una colonia”, la frase che fa tremare l’Europa.

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L’aria nella sala del Consiglio Europeo a Bruxelles era già carica di elettricità, ma nessuno, nemmeno i diplomatici più navigati, avrebbe potuto prevedere l’incendio che stava per divampare. Sotto la luce fredda dei lampadari di cristallo, si è consumato uno scontro che ridefinisce gli equilibri di potere dell’Unione. Da un lato, Giorgia Meloni, Presidente del Consiglio italiano, con uno sguardo determinato che non ammetteva repliche. Dall’altro, Frank-Walter Steinmeier, Presidente della Repubblica Federale di Germania, l’incarnazione dell’establishment europeo, con un sorriso diplomatico che, come si è scoperto, nascondeva un messaggio affilato come un rasoio.

Questo non è stato un normale dibattito. È stata un’esplosione, una sfida diretta al cuore del motore franco-tedesco che da decenni detta la linea politica dell’Unione. La cronaca di una battaglia che è già entrata nella storia inizia con una frase, lanciata da Steinmeier con tono glaciale, quasi paternalistico: “L’Italia deve rispettare gli impegni presi”.

Un silenzio carico di tensione è calato nella sala. Il riferimento era chiaro: le manovre economiche autonome di Roma, quella “voce fuori dal coro” che da mesi infastidiva Berlino e le cancellerie del Nord Europa. Si aspettavano un’alzata di spalle, una giustificazione, forse una mezza ammissione. Non si aspettavano la risposta che stava per arrivare.

Giorgia Meloni ha alzato lo sguardo dal suo fascicolo, ha fissato il Presidente tedesco e, con una voce calma ma tagliente che ha trafitto il silenzio, ha pronunciato le parole che hanno fatto tremare l’aula: “L’Italia non è una colonia. Non accettiamo diktat da nessuno, tantomeno da Berlino”.

Un sussulto ha percorso la sala. I capi di stato si sono guardati, alcuni hanno abbassato lo sguardo, altri hanno smesso di prendere appunti. Fonti interne riferiscono di un ministro olandese che, chinandosi verso il suo vicino, ha mormorato una sola frase: “Questa è guerra”.

Non era un’esagerazione. Quella che doveva essere una riunione tecnica si è trasformata in un campo minato diplomatico. Steinmeier, visibilmente infastidito dalla plateale insubordinazione, ha provato a raddoppiare la posta. Con tono accusatorio, ha ribattuto: “L’Unione non tollera chi agisce per conto proprio. Ci saranno conseguenze”.

“Conseguenze”. In gergo diplomatico, è un colpo basso, una minaccia neanche troppo velata. Ma Meloni non ha fatto un passo indietro. Anzi, si è alzata in piedi. In un gesto di sfida teatrale e potente, ha guardato dritto verso Steinmeier e ha dichiarato: “Se vuole parlare di conseguenze, si prepari a vedere cosa succede quando un paese difende la sua dignità”.

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La prima fase dello scontro si è chiusa con un vantaggio netto per l’Italia. Ma era solo l’inizio. Fonti vicine al governo italiano, infatti, ci rivelano che la premier non era arrivata impreparata. La sua squadra economica aveva passato le settimane precedenti a preparare un dossier scottante: rapporti opachi tra alcune banche tedesche e vecchi contratti energetici firmati alle spalle dell’Italia da governi precedenti. Meloni era pronta a usarli, ma solo se provocata. E la provocazione era arrivata.

Dopo una breve pausa, la tensione era palpabile. Steinmeier ha ripreso la parola, questa volta con un tono più duro, meno misurato, quasi personale. “La stabilità dell’Unione,” ha detto, “si basa sul rispetto delle regole comuni. L’Italia, con la sua politica unilaterale, mette a rischio ciò che abbiamo costruito negli ultimi 30 anni”. I rappresentanti francesi e dei paesi nordici hanno annuito vistosamente.

Meloni ha incassato in silenzio, poi ha contrattaccato con una logica spietata. “Stabilità?” ha ripetuto, quasi ironicamente. “Parla della stabilità che permette alle vostre banche di prosperare mentre le nostre aziende chiudono? Della stabilità che consente a certi stati di dettare l’agenda energetica europea mentre gli altri pagano bollette record? Allora sì, forse vogliamo essere ‘instabili’”.

Questo affondo ha spaccato l’aula. Da un lato, il blocco franco-tedesco, visibilmente irritato. Dall’altro, un silenzioso ma crescente consenso proveniente dall’Est Europa. I leader di Ungheria e Polonia hanno ascoltato in silenzio, ma con espressioni meno ostili del solito verso Roma. I rappresentanti greci e portoghesi, memori delle lezioni subite durante la crisi del debito, si sono mostrati cauti ma visibilmente colpiti dalla fermezza italiana.

È a quel punto che è arrivato il primo colpo di scena. Un consigliere economico ha passato un foglio alla premier italiana. Meloni ha atteso il momento giusto, poi ha messo il documento sul tavolo. “Se vogliamo parlare di rispetto delle regole,” ha detto senza alzare la voce, “cominciamo da qui”.

Il documento, secondo indiscrezioni, conteneva riferimenti precisi a contratti firmati tra il 2012 e il 2016 che avrebbero palesemente favorito aziende tedesche a scapito degli interessi italiani. Steinmeier ha sfogliato il documento in fretta, con le dita che, secondo un testimone, “tremavano leggermente”. Ha alzato lo sguardo e ha chiesto una sospensione tecnica. L’Italia aveva toccato un nervo scoperto.

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La partita a scacchi si è fatta letale al rientro. Steinmeier, riorganizzatosi, ha sferrato quello che pensava fosse il colpo del KO. Un dossier di 200 pagine, distribuito meticolosamente a tutti i presenti. L’accusa: presunti accordi energetici opachi tra il vecchio governo italiano e società tedesche. “L’Italia ha tratto vantaggi illeciti in passato,” ha tuonato, “e ora vuole voltare pagina come se niente fosse. Chiedo formalmente l’apertura di un’indagine”.

I presenti si sono voltati verso Meloni. Si aspettavano una difesa, una ritirata. Lei ha preso una pausa, ha chiuso lentamente il fascicolo che le era stato consegnato, si è alzata e ha detto: “Questi contratti non portano la mia firma, Presidente. Sa chi li ha firmati? I suoi alleati. Gli stessi che oggi la sostengono”.

Scacco matto. L’atmosfera si è fatta rovente. L’accusa era devastante: Steinmeier stava usando contro l’Italia accordi firmati da governi precedenti, politicamente vicini all’establishment tedesco. Meloni ha continuato, senza esitazione: “Abbiamo prove, signor Presidente. Prove che dimostrano come la Germania abbia sistematicamente favorito le sue industrie a discapito delle nostre. E no, non siamo più disposti a restare in silenzio”.

Poi, la mossa finale. Con un sorriso appena accennato, Meloni ha dichiarato: “Ho già condiviso parte di queste informazioni con la stampa internazionale. Se vuole, possiamo aprire tutti i dossier. Ma attenzione, potremmo non essere gli unici a uscirne con le ossa rotte”.

Steinmeier, per la prima volta, non ha replicato. Ha chiesto una seconda sospensione. Meloni aveva vinto il round.

Ma non si è fermata lì. Al rientro, ha preso l’iniziativa, trasformando la sua difesa in un attacco riformatore. Ha chiesto formalmente l’istituzione di una commissione indipendente per indagare sugli squilibri economici interni all’Unione Europea. Ha guardato Steinmeier negli occhi e ha detto: “Se vogliamo trasparenza, facciamola davvero. Mettiamo tutte le carte sul tavolo. Nessuno escluso”.

Un attimo di gelo. Poi, il primo ministro ungherese ha battuto le mani. Il polacco lo ha seguito. In pochi minuti, la proposta ha ottenuto una maggioranza stretta ma sufficiente. Steinmeier, a denti stretti, ha dovuto annuire: “Sosteniamo la trasparenza. Ma la commissione dovrà essere davvero imparziale”. La risposta di Meloni è stata un sorriso: “È esattamente ciò che vogliamo tutti, no?”.

La premier è tornata a Roma quella sera, accolta da molti come un’eroina che aveva osato sfidare l’impero. Ma la storia, come in ogni thriller politico che si rispetti, ha un’ultima, inquietante appendice. Poco dopo le 20, una chiamata anonima è arrivata sul suo telefono privato. Una voce maschile, un tono freddo e metallico: “Ha vinto una battaglia, Presidente. Ma la guerra è lunga. Attenta a dove mette i piedi”.

La battaglia di Bruxelles è finita, ma la guerra per il futuro dell’Europa è appena iniziata. E l’Italia, per la prima volta da decenni, ha dimostrato di non essere più disposta a fare la comparsa.