SUOR ANNA ALFIERI SPARA A ZERO SU ELLY SCHLEIN E IL PARTITO DEMOCRATICO

In un’arena politica e mediatica infiammata, dove le posizioni sembrano irrimediabilmente polarizzate, ci sono voci che emergono con una forza inaspettata, capaci di scuotere le fondamenta stesse del dibattito. Una di queste è, senza dubbio, quella di Suor Anna Alfieri. Lontana dagli stereotipi che vorrebbero le figure religiose confinate in ambiti spirituali, Suor Alfieri si è imposta come un’analista lucida e combattiva, e il suo intervento sul DDL Zan ha lasciato un segno indelebile, sollevando questioni che vanno ben oltre la cronaca politica.
Il suo non è un “no” pregiudiziale, ma un’analisi critica che parte da un riconoscimento: la legge nasce con “obiettivi positivi”. L’intento di proteggere, di non discriminare, è un pilastro di civiltà. Eppure, è proprio qui che Suor Alfieri individua la prima, cruciale, crepa. “Guarda caso,” avverte, “in quegli obiettivi positivi si apre il rischio di creare e di mettere allo scontro due libertà”.
Il cuore della sua argomentazione è un groviglio giuridico e costituzionale: lo scontro tra l’articolo 4 del DDL Zan e l’articolo 21 della Costituzione italiana. Da un lato, la sacrosanta volontà di punire l’odio; dall’altro, la libertà di espressione, pilastro di ogni democrazia liberale. “Una normativa non può mettere allo scontro due libertà, due diritti,” afferma Suor Alfieri, e in questa frase c’è tutto il peso di un dilemma che i legislatori sembrano aver sottovalutato.

Il rischio, secondo la sua analisi, è la creazione di un “vuoto legislativo”. Un vuoto che, inevitabilmente, non rimarrebbe tale. “Quel vuoto legislativo,” spiega, “evidentemente dovrà essere colmato dalla magistratura E dai giudici”. Questo passaggio è terrificante per chi ha a cuore l’equilibrio dei poteri. Significa demandare alla sensibilità del singolo magistrato l’interpretazione di cosa sia “opinione” e cosa sia “reato”, in un ambito, quello dell’identità e delle idee, che è per sua natura fluido e complesso. Si apre la porta a un’incertezza del diritto che è, di per sé, una forma di ingiustizia.
Ma l’affondo più filosofico, e forse più potente, di Suor Alfieri tocca l’essenza stessa della legge. “Com’è possibile,” si chiede, “che un DDL che nasce per non discriminare, in realtà, si affida alla normativa per determinare una categoria?” È una domanda che ribalta la prospettiva. La legge, nel tentativo di proteggere un gruppo, finisce per definirlo, per incasellarlo, per creare un perimetro. E nel momento stesso in cui la legge “definisce la persona”, avverte la religiosa, “si apre lo spazio per una altissima discriminazione”.
È un paradosso solo apparente. Se la legge stabilisce chi sei per poterti proteggere, sta implicitamente dicendo che la tua identità è materia di legislazione. Suor Alfieri propone un capovolgimento: “La legge non dovrebbe definire la persona. Dovrebbe fare un’altra cosa: dovrebbe garantire la persona, punire quei reali reati che ci sono di discriminazione”. La legge, quindi, non come costruttrice di identità, ma come garante universale della dignità umana e punitrice di atti concreti. Non si punisce un’idea, per quanto sgradevole, ma un’azione violenta. Non si definisce un’identità, ma si protegge un individuo.

Questa critica non è solo tecnica; è culturale. Suor Alfieri è netta nel dire che non può essere una norma a colmare un vuoto culturale. “Noi non possiamo credere che sia il DDL Zan [a risolvere il problema], se non c’è quel percorso culturale della non discriminazione”. Affidare alla legge il compito di educare è un errore, e qui si innesta la sua preoccupazione più grande, quella che tocca il futuro.
Il vero pericolo, per Suor Alfieri, è che una normativa che “tende a mettere allo scontro due libertà” stia, di fatto, “diffondendo un pensiero unico”. Il “pensiero unico” è un’espressione forte, che evoca scenari orwelliani, ma che nel suo contesto significa imporre una visione del mondo, una specifica antropologia, attraverso la forza della legge, anziché attraverso il dibattito culturale.
E come si impone un pensiero unico in una società democratica? “Per riuscire a passarlo,” dice Suor Alfieri senza mezzi termini, “deve passare attraverso la scuola”. È questo il vero campo di battaglia. La scuola, luogo di formazione delle coscienze, rischia di diventare il veicolo di un’ideologia di Stato, bypassando il ruolo primario che, secondo la sua visione, spetta ad altri.
Qui, la sua posizione diventa tranciante e si salda con le preoccupazioni di milioni di famiglie: “L’educazione dei figli spetta ai genitori, non alla scuola”. È un richiamo al primato della famiglia, alla libertà educativa, un principio che vede minacciato da una legge che, con la scusa di “educare alla non discriminazione”, potrebbe arrogarsi il diritto di definire cosa sia giusto e cosa sia sbagliato in termini morali e identitari.
L’intervento di Suor Anna Alfieri, quindi, va letto ben oltre la polemica politica del momento. È un richiamo alla prudenza legislativa, una difesa appassionata dell’equilibrio costituzionale tra i diritti, e un monito potentissimo contro la tentazione dello Stato di farsi “educatore” e “definitore” di identità. Ci costringe a interrogarci su domande fondamentali: dove finisce la libertà di opinione e dove inizia l’incitamento all’odio? Può una legge risolvere un problema culturale? E, soprattutto, a chi appartiene il cuore e la mente dei nostri figli? Domande che, con o senza DDL Zan, rimarranno al centro del nostro futuro.
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