Augias UMILIATO da una Giorgia Meloni FURIOSA dopo l’Offesa Subita !

Siamo testimoni di un’epoca in cui la politica non si gioca più solo nelle aule parlamentari. Si accende, si consuma e, a volte, si decide sotto i riflettori impietosi della televisione. Quello che abbiamo visto non è stato un semplice dibattito, ma la trasformazione di uno studio televisivo in un’arena di cristallo e gelo. Le parole non sono state scambiate; sono state brandite come armi affilate.
Le luci, anziché riscaldare, hanno sezionato i volti con l’acutezza di bisturi, generando riflessi spettrali su un pavimento nero lucido, quasi a presagire la fredda determinazione dei protagonisti. Al centro della scena, due figure. Separate da un vuoto che pulsava di elettricità, hanno tenuto incollati milioni di spettatori, non per uno scambio di opinioni, ma per un vero e proprio scontro di visioni, stili e, soprattutto, di potere.
Da un lato, l’intellettuale. Un uomo che non siede, ma regna su un trono invisibile, costruito da anni di prestigio e autorevolezza. Ogni sua fibra comunicava una studiata supremazia. Le mani si muovevano con lentezza, lo sguardo concesso dall’alto, a sottolineare una distanza che riteneva incolmabile. Era il saggio, pronto a diagnosticare, non a dialogare. E il suo verdetto, nelle sue intenzioni, doveva essere definitivo.
Di fronte a lui, la Presidente del Consiglio. Totalmente immobile. Il suo corpo, una scultura d’acciaio. Il volto, una maschera che celava una concentrazione feroce, quasi sovrumana. I suoi occhi erano due lame fisse sull’uomo che stava per parlare. Era la quiete innaturale che precede la tempesta, la calma calcolata di un predatore che osserva la preda avvicinarsi al precipizio. Un’immobilità che non era debolezza, ma la compressione di una forza pronta a esplodere.
Il rito mediatico ha inizio. Il conduttore, con una domanda morbida, vellutata, subdolamente innocente, porge l’offerta sacrificale. Innesca la miccia.
L’intellettuale accoglie la provocazione con un sospiro di pazienza, quasi a compatire la banalità della situazione. Inclinando leggermente il busto, inizia a parlare della Presidente come se lei non fosse lì, a meno di tre metri. La tratta come un caso da refertare, un oggetto di studio. Questo distacco, questa oggettivazione, è già il primo attacco.
A suo parere, la Presidente “teme”. Teme, sì. Teme una vera conferenza stampa, fatta di domande “insistenti e fastidiose”, quelle che mettono a nudo le fragilità. Lascia maturare il concetto nel pubblico. Poi, con tono confidenziale, quasi compassionevole, aggiunge il carico: lei teme che la parte più “collerica” del proprio temperamento possa emergere.

La parola “collerica” viene depositata con cura chirurgica. Non un’accusa diretta, ma un dato di laboratorio. La chiave psicologica del soggetto in esame. È il tentativo di etichettare, di ridurre la complessità di una leader a un tratto caratteriale negativo, infantile. Un sorriso microscopico, compiaciuto, appare sul suo volto. Ha appena dipinto il ritratto di una donna schiava delle proprie emozioni, incapace di controllarsi. Una retorica fin troppo usata per minare l’autorità femminile.
La Presidente è ancora immobile. Ma un osservatore attento avrebbe notato un microscopico sussulto sotto l’occhio destro. La prima, infinitesimale crepa nella diga di ghiaccio. Lo ha lasciato parlare. Ha atteso che pronunciasse esattamente quella parola, “collerica”, che nel giro di pochi secondi sarebbe diventata la sua rovina. La caccia è cominciata in quell’istante.
Tutti si aspettavano il cedimento. L’eccesso emotivo. La spettacolare conferma della diagnosi. Si aspettavano la collera.
Invece, è arrivato il gelo.
La Presidente muove la testa. Una statua che prende vita, con una lentezza quasi teatrale. I suoi occhi si fissano su quelli dell’uomo, ma non con rabbia. Con curiosità distaccata, quasi scientifica. Come un patologo che osserva un parassita al microscopio. La sua voce è bassa, metallica, fredda. È il suono di un coltello che scivola sul marmo. Taglia l’aria e le aspettative.
Pronuncia una sola parola: “Interessante”.
Lo tratta come uno scolaro impreparato. “La sua analisi,” dice, “è accurata. Peccato che sia costruita su una premessa così falsa da risultare comica.” Ha parlato della sua “assenza”, e su questa assenza l’intellettuale ha costruito “un intero castello psicologico basato unicamente sulla sua fantasia”. È il primo colpo. L’accusa si trasforma nella debolezza dell’accusatore.
Poi, inizia il bombardamento. Freddo, metodico, fattuale. Inizia il massacro logico. Snocciola l’elenco delle sue conferenze stampa. Quella di fine anno: tre ore, quarantacinque domande. I punti stampa dopo ogni Consiglio dei Ministri europeo. I vertici G7, G20, NATO. Gli incontri bilaterali, da Washington a Nuova Delhi. Ogni nome, ogni evento, è un colpo secco sul tavolo dell’evidenza. Una prova inoppugnabile.
L’uomo, prima solido, tradisce un tic della palpebra. Le sue mani, prima studiate, diventano due ragni nervosi in cerca di fuga. La Presidente lo ha appena degradato: da pensatore illuminato a commentatore svogliato, superficiale, privo di informazioni. Quando lui tenta di balbettare un intervento, lei solleva la mano di un solo centimetro. Un gesto minimo, ma imperioso. Pietrificante. “Ora parlo io.” La gerarchia è ristabilita.
Il massacro logico è finito. Inizia la tortura psicologica.
Lo schernisce, chiamandolo “Professore”. Un titolo che, in quel contesto, diventa veleno dolce. “Il problema,” spiega, “non è la mia presenza. È il fastidio che prova una certa élite intellettuale che ha sempre deciso chi fosse degno di parola. Un’élite che ora trema, perché il suo giudizio non conta più.” Gli sta eseguendo un’autopsia dell’anima, a corpo ancora caldo.
Per il colpo di grazia, la sua voce scende a un sussurro, carico di finta pietà. Afferma di sapere cosa l’uomo pensa davvero. Il suo giudizio più vero su di lei, come donna e come leader. Poi scandisce l’offesa, quasi leggendogli l’anima: “Giorgia, per me sei collerica”.
L’intellettuale è congelato. Si aspettava una smentita, una reazione emotiva. Invece, ha ricevuto la sua stessa parola, riposizionata come prefazione della sua condanna. Sul volto della Presidente appare un’incrinatura. Non di rabbia, ma di trionfo. Un sorriso crudele, velocissimo. “Davvero? È tutto qui?”
Il tono si affila di nuovo. “No,” dice, “non è un’offesa. È una confessione. È la confessione di un uomo di un’altra epoca, che non trova il lessico adeguato per nominare il potere nelle mani di una donna. Un uomo che trasforma la determinazione in disturbo, la forza in malattia. È la vostra paura. Quella che su un uomo chiamereste ‘visione’, su una donna la denunciate come ‘collera’.”
L’analisi colpisce nel segno. Trasforma un attacco personale in una denuncia sociale, elevando il dibattito.
Ma non è finita. Compie l’ultimo movimento, quello che riscrive la geometria del potere nello studio. Si alza in piedi. Non è un gesto impulsivo. È un’ascensione. Lenta, calcolata. Le mani scorrono sui braccioli, la schiena si stacca con la lentezza di una faglia che prende vita. È un movimento geologico.
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Ora è in piedi. La sua ombra diventa gigantesca, proiettandosi sull’uomo e sullo studio intero. Lui, in risposta, sprofonda nella sua poltrona, che non è più un trono ma una conca di fragilità. È diventato piccolo, un vecchio le cui teorie si sbriciolano.
Parlando in piedi, la sua voce acquisisce una profondità nuova. Non è più una lama, è un martello. Snocciola i termini che “l’élite” usa contro le donne: “Isterica”. E di nuovo: “Collerica”.
“Queste non sono insulti, Professore. Ma catene.” Si rivolge allo studio, vedendo le pareti di una gabbia invisibile. “Pensavate ci avrebbero tenute dentro. Controllate. Definite da voi.” Fa un passo verso il centro, verso le luci più forti. Il posto che spetta al comando.
Si volta verso la nazione, aprendo le braccia in un gesto di forza primordiale. “Il problema,” proclama, “è che noi quelle sbarre le abbiamo spezzate. E con i frammenti, con ogni singolo pezzo affilato del vostro disprezzo, stiamo costruendo troni.”
Silenzio totale. Il finale è un atto di disprezzo assoluto. Ignorando l’uomo, ridotto a statua frantumata, si rivolge al conduttore con tono pratico, quasi divertito. “Allora, possiamo tornare alle cose serie? O dobbiamo ancora perdere tempo con la psicanalisi a due soldi di chi non ha superato il secolo scorso?”
Questo non è stato solo televisione. È stato un simbolo potente della trasformazione del potere, della parola e del ruolo femminile nell’arena pubblica. Una lezione brutale su come un attacco percepito possa essere ribaltato e trasformato nell’arma della vittoria più totale.
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