Terremoto su Report: Ranucci da Cronista ad Attivista? Tutta la Verità sullo Scontro che Sta Spaccando il Giornalismo Italiano

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Un terremoto. Non c’è altra parola per definire l’onda d’urto che sta scuotendo le fondamenta stesse del giornalismo italiano, mettendo in discussione l’integrità e la sacralità di una delle sue trasmissioni più iconiche: Report. Al centro della bufera, il suo volto simbolo, Sigfrido Ranucci, colpito da un’accusa frontale, un affondo lanciato da una voce autorevole del settore, quella di Tommaso Cerno.

Non si è trattato di una semplice polemica televisiva, di un battibecco da salotto buono. Quello a cui abbiamo assistito è uno scontro tra titani, un dibattito che va ben oltre la singola puntata e che tocca il cuore pulsante della professione giornalistica: il suo ruolo, la sua etica, la sua stessa ragion d’essere nella società contemporanea.

L’accusa mossa da Cerno è pesante, tagliente come un bisturi e destinata a lasciare cicatrici. Risuona come un campanello d’allarme per l’intero sistema mediatico. Con parole precise, Cerno ha denunciato quella che definisce una “deriva politica” di Sigfrido Ranucci. L’immagine del cronista d’assalto, imparziale e al di sopra delle parti, si sarebbe sgretolata per lasciare spazio a quella dell’attivista. Un uomo che, secondo l’accusa, avrebbe abbandonato la neutralità richiesta dal ruolo per abbracciare posizioni schierate, per trasformare l’inchiesta in uno strumento di battaglia ideologica.

Se questa trasformazione fosse confermata, ci troveremmo di fronte a un tradimento dei principi fondamentali che dovrebbero guidare ogni professionista dell’informazione. La posta in gioco è altissima e non riguarda solo Ranucci o Cerno; riguarda la fiducia del pubblico. Il giornalismo, per sua stessa natura, dovrebbe essere un baluardo di oggettività, un occhio critico ma distaccato sugli eventi e sul potere. Quando questa distanza viene meno, quando l’inchiesta si tinge dei colori dell’ideologia, il confine tra informazione e propaganda diventa pericolosamente labile, quasi invisibile.

Cerno ha sollevato un interrogativo cruciale, una domanda che ora rimbalza di redazione in redazione, di talk show in talk show: può un giornalista mantenere intatta la sua credibilità se si percepisce un suo coinvolgimento così diretto e profondo nelle dinamiche politiche?

La scintilla che ha acceso questo incendio devastante è stata una specifica puntata di Report, quella dedicata alla giovane e talentuosa direttrice d’orchestra Beatrice Venezi. Cerno ha contestato aspramente l’approccio di quell’inchiesta, definendola eccessivamente invasiva e, a suo dire, scientificamente mirata a delegittimare una figura professionale, prima ancora che pubblica. “Il talento”, ha tuonato Cerno, “non può e non deve essere oggetto di un’inchiesta giornalistica che ne metta in discussione la validità”. Un attacco che sposta il focus dal merito dei fatti alla metodologia, suggerendo un accanimento.

Ma è sull’accusa di presunte affiliazioni che lo scontro ha raggiunto il suo apice. Cerno non ha usato mezzi termini, menzionando la partecipazione di Ranucci all’Associazione Nazionale Magistrati (ANM) e alla Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL). Non solo. Ha parlato anche di un presunto, e pericoloso, avvicinamento a figure politiche di primo piano come Giuseppe Conte e Rula Gebreal. Queste frequentazioni, secondo la tesi di Cerno, sarebbero la prova inconfutabile di un impegno che travalica i confini del ruolo giornalistico, sconfinando apertamente nell’attivismo politico.

È un terreno minato. Un giornalista, come ogni cittadino, ha il diritto di avere le proprie opinioni, le proprie idee e di partecipare alla vita sociale. Tuttavia, la questione etica sorge impetuosa quando queste partecipazioni, queste simpatie, diventano così evidenti da poter influenzare, o anche solo far percepire, una mancanza di imparzialità. Il pubblico si aspetta, e pretende, un’informazione libera da condizionamenti. Ogni ombra gettata su questo principio rischia di minare alla base il patto di fiducia tra chi informa e chi viene informato.

La domanda fondamentale posta da Cerno risuona in ogni angolo del Paese: un giornalista può essere contemporaneamente cronista e attivista senza compromettere irrimediabilmente la sua credibilità? È un quesito che interpella non solo Ranucci, ma l’intera categoria, obbligandola a una riflessione non più procrastinabile.

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L’attacco di Cerno, però, non si è fermato al caso Venezi o alle affiliazioni. Si è esteso, come una marea, fino a investire l’intero impianto metodologico di Report. Si è parlato di “errori, sviste e omissioni”, di “interviste a soggetti discutibili”, di “dichiarazioni tagliate ad arte” per far quadrare il cerchio di una tesi precostituita. Se queste pratiche fossero vere, trasformerebbero il giornalismo d’inchiesta, fiore all’occhiello del servizio pubblico, in uno strumento per sostenere una narrazione decisa a tavolino, piuttosto che per ricercare la verità, per quanto scomoda essa sia. È un’accusa che mina la credibilità stessa del programma, la sua anima.

Il giornalismo d’inchiesta vive della sua capacità di scavare a fondo, di portare alla luce verità nascoste. Ma questa ricerca, per essere legittima, deve essere condotta con rigore assoluto, con trasparenza cristallina, evitando manipolazioni o forzature. Cerno ha evocato la vecchia immagine del “bue che dà del cornuto all’asino”, per sottolineare quella che ritiene essere l’ipocrisia di chi predica neutralità, pur essendo, a suo dire, totalmente immerso in dinamiche politiche.

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E in tutto questo, Sigfrido Ranucci? Il conduttore di Report è rimasto il grande protagonista silenzioso di questo dibattito. La sua assenza dallo studio dove si consumava l’attacco, la mancanza di una risposta diretta, immediata, alle accuse di Cerno, hanno pesato quasi quanto una presenza. Un silenzio che si presta a mille interpretazioni. Per alcuni, potrebbe essere letto come una forma di superiore disprezzo per le critiche ricevute. Per altri, come una strategia calcolata per non alimentare ulteriormente una polemica già incandescente. Ma nell’epoca della comunicazione istantanea, il silenzio può essere assordante. E generare ulteriori, e più pressanti, interrogativi.

Questo scontro, è ormai chiaro, è molto più di una semplice diatriba televisiva. È la punta dell’iceberg di una crisi molto più ampia e profonda che attraversa il mondo dell’informazione. La fiducia nei media è in calo costante, e polemiche di questa portata non fanno che acuire il problema, allontanando i cittadini e alimentando il sospetto.

La domanda cruciale che emerge da questa vicenda è forse la più antica del mondo, ma oggi torna con una violenza inaudita: chi controlla i controllori? Chi ha il diritto di definire cosa è giornalismo e cosa non lo è? Chi verifica l’integrità delle inchieste che guardano nelle vite di tutti? Quando il giornalismo, come denunciato da Cerno, diventa un’arma, perde la sua funzione essenziale di servizio pubblico e si trasforma in uno strumento di potere, non meno pericoloso di quello che dice di voler combattere.

Cerno ha denunciato una forma di controllo narrativo che decide chi può parlare, chi deve tacere e chi, invece, va messo alla gogna mediatica. Questa visione distorta della professione, se reale, è un pericolo mortale per la democrazia, perché limita il pluralismo delle voci e la libera circolazione delle idee.

La sfida è stata lanciata. Ora la palla passa a Sigfrido Ranucci. Starà a lui decidere se raccoglierla, se scendere nell’arena e fornire le sue risposte, o se mantenere la linea del silenzio. Ma al di là delle singole personalità, questo episodio ci costringe tutti, come pubblico e come cittadini, a riflettere sul ruolo che vogliamo per il giornalismo nella nostra società, e sulla necessità, ora più che mai, di difendere la sua indipendenza e la sua imparzialità.