Giorgia Meloni FURIOSA dopo l’offesa di Augias: la Premier LO ASFALTA in diretta!

Non è uno studio televisivo. È un’arena di cristallo e gelo, un non-luogo dove le luci non illuminano, ma sezionano. Ogni parola pesa come un macigno e ogni silenzio è un’arma strategica. In questa arena, due figure si fronteggiano, separate da un vuoto che pulsa di elettricità. Da un lato, “lui”, l’intellettuale. Non siede, “regna”. La sua poltrona è un trono invisibile, costruito su decenni di prestigio e autorevolezza. Il suo sguardo è una concessione dall’alto, il suo tono è quello del mentore che spiega il mondo.
Di fronte, “lei”, la Presidente del Consiglio. Immobile. Totalmente immobile. Un tailleur scuro che avvolge una scultura d’acciaio. Le mani ferme, il volto una maschera di concentrazione feroce. È la quiete del predatore, che osserva la preda illudersi di avere il controllo del territorio, ignara del precipizio.
Il sacerdote di questo rito mediatico, il conduttore, porge la sua offerta sacrificale. Una domanda morbida, vellutata, subdolamente innocente: “Professore, ci spiega questo rapporto particolare che la Presidente ha con la stampa e con le domande non concordate?”
L’intellettuale accoglie la domanda con la pazienza del docente costretto a ribadire l’ovvio. Inclina il busto, un movimento minimo che cattura tutta la luce. Il suo tono non attacca. È peggio. È clinico, analitico, paternalistico. Inizia a parlare di lei come se non fosse presente, come se fosse un caso di studio da refertare.
A suo parere, la Presidente “teme”. Sì, la parola giusta è “temere”. Teme, dice, una vera conferenza stampa, fatta di domande “vere, anche fastidiose”. Teme di vacillare. Poi, la diagnosi si fa psicologica, confidenziale, come un segreto svelato a milioni di spettatori. “Teme che la parte più collerica del proprio temperamento possa emergere”.
La parola “collerica” viene depositata sul tavolo con cura chirurgica. Non è un’accusa, è un dato di laboratorio. È la gemma che regge l’intero costrutto, la chiave psicologica che spiega il soggetto. L’intellettuale si appoggia allo schienale. Ha appena dipinto il ritratto di una donna debole, schiava di emozioni infantili, incapace di reggere il peso del potere.
Lei resta immobile. Ma un occhio allenato nota la prima crepa nella diga di ghiaccio: un microscopico sussulto sotto l’occhio destro. Ha atteso. Ha osservato. Ha concesso alla preda di sentirsi il predatore. Ha aspettato che pronunciasse esattamente la parola che, di lì a poco, diventerà la sua rovina. La caccia è iniziata.
Il silenzio che segue la perizia non è una pausa. È un’arma. Le telecamere puntano su di lei. L’arena trattiene il respiro. Tutti attendono la conferma della diagnosi: l’eccesso, la rabbia, la collera.
Invece, arriva il gelo.
La Presidente muove la testa, un’inclinazione lenta, innaturale. I suoi occhi si fissano su quelli dell’uomo. È il modo in cui un patologo osserva un parassita insolito sul vetrino. Quando parla, la sua voce tradisce ogni previsione. Non urla, non graffia. È bassa, metallica, fredda. Il suono di un coltello che scivola sul marmo.
“Interessante”, dice. Una sola parola che racchiude un oceano di disprezzo. “Un’analisi accurata. Peccato che sia costruita su una premessa così falsa da risultare quasi comica”.
L’intellettuale ha un microsussulto. La sua aura da maestro onnisciente si incrina. Si aspettava una reazione emotiva; non si aspettava di essere trattato come uno scolaro impreparato.
Lei prosegue, il tono invariabile. “Lei parla della mia paura. Lei parla della mia assenza. E su questo costruisce un castello psicologico. Mi domando su quali dati si fondi questa sua teoria così creativa”.

Poi, arriva il bombardamento. Freddo, metodico, implacabile. “Conferenza stampa di fine anno: 3 ore, 45 domande. Conferenze stampa dopo ogni consiglio dei ministri europeo, senza saltarne una. Punti stampa al G7, al G20, al vertice NATO. Dopo ogni incontro bilaterale importante, da Washington a Nuova Delhi”.
Snocciola città e occasioni come un generale che elenca le battaglie vinte. Ogni nome è un colpo secco. L’uomo, prima così solido, tradisce un tic. Le mani scivolano sui braccioli. “Forse”, continua lei, “lei parla delle interviste televisive? Posso elencarle anche quelle, ma temo che la lista la annoierebbe. E soprattutto annoierebbe un pubblico che, a differenza sua, sa usare un motore di ricerca per verificare i fatti”.
Questa è la prima ferita. Lo ha degradato da pensatore illuminato a commentatore svogliato, superficiale. Lui tenta di intervenire, ma lei solleva una mano di un centimetro. Un gesto minimo, imperioso, che lo pietrifica. “Ora parlo io”.
Il massacro logico è finito. Inizia la tortura psicologica.
Lei si sporge in avanti, ricalcando la postura che lui aveva assunto, trasformandola in un attacco. “Vede, professore”, e il titolo è veleno dolce, “il problema non è la mia presenza o assenza. Il problema è il fastidio. Il fastidio di una certa élite intellettuale che per decenni ha deciso chi fosse degno di parola e chi dovesse tacere. E ora questa élite trema. Trema perché il suo giudizio non conta più. Il potere di decretare chi è dentro e chi è fuori si sta dissolvendo”.
Sta parlando di lui, della sua vanità, della sua paura. Gli sta facendo un’autopsia dell’anima a corpo caldo. La partita logica è archiviata. Adesso, si passa al colpo di grazia.
La sua voce scende, diventa un sussurro carico di finta pietà. “Ma so cosa pensa davvero”, dice, “dopo la sua analisi, dopo avermi studiata come un insetto, ha emesso la sua sentenza”. Fa una pausa. “Giorgia, per me, sei collerica”.
La parola cade nell’arena come un sasso nel lago. La tiene tra le mani, la soppesa. Il professore è congelato, la bocca a metà, paralizzato. Si aspettava la smentita, ha ricevuto la sua stessa parola nuda, riposizionata contro di lui. Gli hanno sottratto la narrazione.
Allora, sul volto di granito della Presidente, appare un’incrinatura. Non di rabbia, ma di trionfo. Un sorriso lento, controllato, crudele. “Davvero?”, sussurra, “è tutto qui? Ho aspettato la tua arma migliore e mi hai portato un coltello di burro”.
L’uomo balbetta. Il sorriso scompare. “Pensa davvero che questa sia un’offesa, professore? No. È una confessione. È la confessione di un uomo di un’altra epoca, che cerca di nominare il potere nelle mani di una donna e non trova il lessico adeguato. Trasforma la determinazione in disturbo, la visione in malattia”.
Decostruisce i vecchi dogmi, e lui è lì, smontato. “È la vostra paura”, continua lei, sferzante, “la paura di una determinazione che su un uomo chiamereste visione, e su una donna denunciate come collera”.
Poi, il movimento che riscrive la geometria del potere. Si alza. Non è un gesto d’impulso. È un’ascensione calcolata, lenta, inesorabile. La schiena si stacca dallo schienale con la lentezza di una faglia geologica. La stanza sembra inclinarsi verso di lei. Ora la sua statura non è solo fisica; è strategica, schiacciante. È in piedi, immobile, e da quell’altura guarda il suo avversario dall’alto verso il basso.
Lui sprofonda nella sedia. Diventa piccolo, un vecchio su un trono troppo grande. Il luminare evapora. Resta un uomo giudicato da una donna che ha smesso di essere l’oggetto della sua analisi ed è diventata il suo giudice.

Il suo sguardo è glaciale. È il vuoto di un verdetto già scritto. È un conquistatore che osserva le rovine fumanti della città appena cancellata dalla mappa.
“Parole”, dice, e ora la sua voce piove dall’alto, un martello. “Parole come ‘isterica’”. Lo scandisce come un fossile verbale. “E poi la sua preferita, la sua grande scoperta psicologica: ‘collerica’”. Lo dice in un soffio che il microfono amplifica in un uragano di disprezzo.
“Non sono insulti, professore”, dice alzando una mano. “Sono catene. Pensavate fossero acciaio. Pensavate ci avrebbero tenute dentro, controllate, definite da voi”.
Si ferma. Un silenzio totale. Poi fa un passo verso il centro dello studio, verso le luci. L’uomo non è più nemmeno uno sfondo, è un reperto dimenticato. Lei si volta verso la nazione, verso il pubblico invisibile, e apre le braccia.
“Il problema”, proclama, “è che noi quelle sbarre le abbiamo spezzate. E con i frammenti, con ogni singolo pezzo affilato del vostro disprezzo, stiamo costruendo troni”.
L’esecuzione è conclusa. Manca solo l’atto di disprezzo finale. Si gira di scatto verso il conduttore, ignorando totalmente l’uomo ormai ridotto a statua frantumata. Sul suo volto, un’espressione distesa, quasi divertita.
“Allora”, chiede, con tono pratico, “possiamo tornare alle cose serie? O dobbiamo ancora perdere tempo con la psicanalisi a due soldi di chi non ha superato il secolo scorso?”.
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