DECISIONE FINALE SUL CASO SALIS: REAZIONE FURIOSA DELLA SINISTRA

L’Italia è spaccata, infiammata, divisa ancora una volta da una vicenda che trascende le aule di tribunale per diventare il simbolo di uno scontro ideologico e morale. Il caso di Ilaria Salis, l’attivista italiana candidata alle elezioni europee e ora europarlamentare, è esploso con una violenza inaudita. Ma questa volta, il fragore non proviene dalle piazze o dai dibattiti televisivi urlati. Proviene dal cuore delle istituzioni europee, da una decisione che pesa come un macigno e che ha innescato una reazione furiosa da parte della sinistra italiana.
Ciò che sta emergendo non è solo una battaglia legale, ma la fine di un’ambiguità, lo smascheramento di una strategia politica che, secondo molti, ha tentato di utilizzare il prestigio del Parlamento Europeo come scudo per aggirare la giustizia. E la verità, come spesso accade, è scomoda, ruvida e destinata a lasciare cicatrici profonde nel dibattito pubblico.
Andiamo con ordine, perché i fatti, spogliati dalle interpretazioni di comodo, sono l’unica bussola in questa tempesta. Il nome chiave di questa svolta è quello di Jorge Buxadé Villalba (indicato nel video come Vasquez Lazzara, ma noto come Buxadé), relatore europeo incaricato di esaminare il caso Salis. È fondamentale sottolineare chi sia quest’uomo: non un estremista di destra, non un sovranista della prima ora. Buxadé è un membro del Partito Popolare Europeo (PPE), un moderato. Le sue conclusioni, quindi, non possono essere liquidate facilmente come un attacco politico di parte.
E cosa dice Buxadé? Una frase, semplice e tagliente, che smonta l’intera impalcatura narrativa costruita attorno alla candidatura di Salis: “Il reato per cui Ilaria Salis è imputata è precedente alla sua candidatura”. Fermiamoci un istante a riflettere sul peso di queste parole. Non c’è nessun complotto giudiziario ordito per fermare un’avversaria politica. Non ci sono forze oscure che tramano nell’ombra. C’è un’accusa, grave e circostanziata, che esiste da prima che il suo nome finisse sulle schede elettorali.
La domanda, a questo punto, sorge spontanea e inevitabile: perché candidarla? Perché costruire un’intera campagna elettorale su una figura che, al di là delle sue idee politiche, doveva e deve rispondere di accuse precise davanti alla magistratura di un altro paese? La risposta che emerge dalle analisi più critiche è agghiacciante nella sua lucidità: per ottenere l’immunità parlamentare. Per saltare il processo. Per aggirare la legge.

Non si tratta di un’interpretazione maliziosa, ma di una strategia politica calcolata. Ed è qui che la vicenda personale di Ilaria Salis smette di essere tale e diventa un “modello politico”. Un modo di fare politica che, secondo l’accusa, confonde la protezione garantita ai rappresentanti del popolo con una copertura, un’impunità personale. Si è tentato di trasformare una questione puramente giudiziaria in una battaglia ideologica, dove chi si professa “progressista” o “antifascista” sembra rivendicare, implicitamente, uno statuto di intoccabilità.
Ma chi è Ilaria Salis secondo le carte processuali? Non una semplice manifestante. Le accuse la descrivono come una presunta militante della cosiddetta “banda del martello”, un gruppo radicale accusato di azioni violente e aggressioni organizzate. Non parliamo di striscioni o slogan, ma di lesioni. La riflessione che molti cittadini stanno facendo in queste ore è spietata: cosa sarebbe successo se un giovane militante di destra, magari legato a un centro sociale neofascista, con le stesse identiche accuse, fosse stato candidato per ottenere l’immunità? La risposta è ovvia: sarebbe stato crocifisso mediaticamente e politicamente.
Ma per Ilaria Salis, appartenente “alla galassia giusta”, quella che si erge a vittima del sistema, la narrazione è stata diversa. Si è tentato di far passare il messaggio che il Parlamento Europeo potesse diventare una “zona franca”, un luogo dove le regole si piegano in nome di una presunta superiorità morale.
Questa volta, però, il meccanismo si è inceppato. L’Europa, attraverso il suo relatore, ha detto “No”. Ha stabilito che l’immunità non si applica in questo modo. La giustizia deve fare il suo corso, come per qualsiasi altro cittadino. Senza sconti, senza privilegi. Ed è questo che ha scatenato il panico.
La reazione della sinistra non si è fatta attendere. Si parla di persecuzione, di fascismo strisciante, di repressione. Ma una parte significativa dell’opinione pubblica, stanca di questa doppia morale, ha interpretato la decisione non come un attacco, ma come un disperato segnale di ritorno alla normalità. Un ritorno al principio fondamentale e fondante di ogni democrazia liberale: la legge è uguale per tutti.
È proprio questo principio che fa tremare certi ambienti politici. Non tanto la detenzione o la possibile condanna, ma il precedente. Se Ilaria Salis deve rispondere in tribunale come chiunque altro, allora nessuno, nemmeno chi si ammanta di retorica progressista, è più al sicuro dal giudizio. Crolla il castello di carte dell’impunità ideologica.
Siamo arrivati a un bivio. O si riafferma il rispetto incondizionato della legge, oppure si sprofonda in una giungla di relativismo etico, dove ogni azione è giustificabile se accompagnata dallo slogan giusto.

In questo scenario di tensione altissima, è scesa in campo anche la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Dopo un lungo silenzio strategico, le sue parole, affidate a un importante quotidiano nazionale, sono state nette, definitive, senza possibilità di equivoco. “L’Italia è uno stato di diritto e nessuno, ripeto nessuno, può pensare di sfuggire alla giustizia grazie a un seggio europeo”. Ha poi aggiunto, affondando il colpo: “Chi ha violato la legge risponderà davanti alla legge. La campagna vittimista della sinistra è un insulto alla democrazia”.
Queste dichiarazioni segnano una linea di demarcazione invalicabile. Non più ambiguità, non più silenzi di comodo. Un richiamo secco all’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Ilaria Salis, quindi, dovrà affrontare il suo processo. Senza scorciatoie, senza salvacondotti.
Questa storia, al di là del suo esito giudiziario, è già diventata simbolica. Potrebbe segnare la fine di una stagione politica, quella in cui è bastato gridare “all’oppressione” per sentirsi assolti da ogni responsabilità. Quella in cui il privilegio si è travestito da battaglia civile.
Ora la palla passa non solo ai tribunali, ma anche alla coscienza collettiva. Il punto non è più e solo Ilaria Salis. Il punto siamo tutti noi. Siamo disposti ad accettare che la giustizia possa essere aggirata in nome dell’ideologia? O crediamo ancora che la legge, quella vera, sia l’unico argine che ci separa dal caos? Questa decisione europea, e la conseguente bufera politica, ci costringono a scegliere da che parte stare. E questa volta, la risposta non ammette sfumature.
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