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lananh8386
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Figuraccia Internazionale: Arrestato a Tripoli per Omicidio il Generale Libico Rilasciato dal Governo Meloni
The case has roiled Italian politics in 2025.
Libyan warlord Osama Al-Masri Njeem, controversially released from jail by Italian authorities in January, was arrested Wednesday in Tripoli on charges of torture and violence against prisoners.
“As sufficient evidence was established to support the charges, the Public Prosecutor has referred the accused to trial, while he remains in pre-trial detention pending judgment,” the Attorney General Office of the State of Libya said in a statement.
It added that investigations into Al-Masri uncovered “violations of the rights of inmates at the main Tripoli Reform and Rehabilitation Institution,” including the torture of at least 10 detainees and “the death of one inmate as a result of torture.”
Al-Masri, long known as a key figure at Libya’s Mitiga prison, was previously arrested in Turin on Jan. 19 after attending a Juventus football match, following an International Criminal Court arrest warrant accusing him of war crimes, torture, murder and sexual violence.
Despite those charges, Italy released him after 48 hours, a move that sparked outrage in Rome and prompted the Court of Ministers to open an investigation into Justice Minister Carlo Nordio, Interior Minister Matteo Piantedosi and Cabinet Secretary Alfredo Mantovano over allegations they facilitated Al-Masri’s return to Libya.
The inquiry was ultimately dismissed by Italy’s lower house of parliament, where the government holds a majority, in early October.
Government critics accused Prime Minister Giorgia Meloni’s administration of returning Al-Masri to Libya to protect Italian energy interests and prevent potential retaliation, including threats to curb cooperation on migration control.
The Italian government, for its part, defended the decision as a matter of legal procedure and national security.
On Nov. 2, Rome and Tripoli renewed for three more years the controversial Italy-Libya Memorandum of Understanding, a deal in which the Libyan coastguard would block the departure of migrants from the African continent.
Uno schiaffo morale e diplomatico che risuona da Tripoli fino a Roma, mettendo in palese imbarazzo il governo italiano. Osama Almasri Najim, il controverso generale e signore della guerra libico, è stato arrestato il 5 novembre 2025 nella capitale libica. Le accuse mosse dalla Procura generale del paese nordafricano sono terrificanti: tortura di almeno dieci detenuti, trattamenti crudeli e degradanti, e l’omicidio di almeno un prigioniero, morto a seguito delle violenze subite.
La notizia, di per sé grave, assume i contorni della farsa internazionale se si riavvolge il nastro a soli dieci mesi fa, al gennaio 2025. Perché Osama Almasri Najim, l’uomo oggi in cella a Tripoli per omicidio e tortura, è lo stesso uomo che il governo italiano, guidato da Giorgia Meloni, ha frettolosamente rilasciato e rimpatriato con un volo di Stato, nonostante pendesse su di lui un mandato di cattura della Corte Penale Internazionale (CPI) per crimini contro l’umanità.
Quello che si consuma oggi è il paradosso di un’Italia che, di fatto, ha protetto un uomo che persino le sue stesse autorità libiche ora riconoscono come un criminale violento. L’arresto di Najim a Tripoli non è solo un fatto di cronaca libica; è la cronaca di un fallimento italiano.
Per comprendere la portata dell’imbarazzo attuale, bisogna tornare al 19 gennaio 2025. In una scena che sembra tratta da un film di spionaggio, Osama Almasri Najim viene arrestato dalla DIGOS a Torino. Non si nascondeva. Si trovava in Italia, apparentemente indisturbato, per assistere a una partita di calcio.
Il suo arresto, però, non fu casuale. Fu eseguito su mandato della Corte Penale Internazionale (CPI) de L’Aia. Le accuse della CPI, contenute nel mandato di cattura, erano ancora più pesanti di quelle odierne: crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Najim era ritenuto responsabile, in qualità di direttore del famigerato centro di detenzione di Mitiga, di aver sistematicamente praticato e supervisionato omicidi, torture, stupri, persecuzioni e altri atti disumani contro migranti e oppositori politici.
L’Italia, come firmataria dello Statuto di Roma, aveva un obbligo chiaro: trattenere Najim e consegnarlo alla Corte Penale Internazionale per il processo. Ma è qui che la storia prende una piega surreale.
Soltanto due giorni dopo l’arresto, il 21 gennaio, la Corte d’Appello di Roma ordina la sua immediata scarcerazione. La motivazione ufficiale? Un “vizio di procedura”. Un cavillo tecnico, una presunta mancata interlocuzione preventiva con il Ministero della Giustizia, che ha di fatto annullato l’esecuzione dell’arresto.
Ciò che accadde dopo, però, non fu un errore procedurale, ma una scelta politica precisa. Anziché trovare un modo per sanare il vizio e onorare gli impegni internazionali, il governo Meloni agì con una rapidità senza precedenti. Non appena Najim varcò la soglia del carcere da uomo libero, fu preso in carico e immediatamente imbarcato su un volo di Stato. Destinazione: Libia.
La giustificazione fornita dall’esecutivo fu duplice e, col senno di poi, ancora più imbarazzante. In primo luogo, si disse che la sua permanenza sul territorio italiano rappresentava un grave “rischio per la sicurezza nazionale”. In secondo luogo, si diede la colpa alla magistratura per averlo rilasciato. Di fatto, il governo usò un aereo della Repubblica per allontanare un ricercato dalla giustizia internazionale, usando come pretesto la sicurezza che la sua stessa presenza minacciava.
La reazione della Corte Penale Internazionale non si fece attendere. Fu una critica durissima. L’Aia accusò apertamente l’Italia di essere venuta meno ai suoi obblighi fondamentali derivanti dallo Statuto di Roma. In sostanza, l’Italia aveva voltato le spalle alla giustizia internazionale, preferendo una soluzione diplomatica opaca alla trasparenza del diritto.
Anche l’opposizione politica in Italia cavalcò il caso, definendolo una “figuraccia internazionale”, un atto di sottomissione a logiche non chiare che aveva compromesso la credibilità del Paese. Ma il governo tirò dritto, difendendo la tesi della “sicurezza nazionale” e scaricando la responsabilità sulla Corte d’Appello. Si cercò di far calare il silenzio sulla vicenda, sperando che la sabbia libica coprisse le tracce di quell’aereo di Stato.
Non è andata così.
L’arresto di Osama Almasri Najim, avvenuto il 5 novembre a Tripoli, è la pietra tombale sulla versione del governo italiano.
Le autorità libiche, che secondo la tesi italiana erano il contesto in cui Najim doveva tornare per “stabilità”, lo hanno ora incriminato per reati spaventosamente simili a quelli contestati dalla CPI. La Procura generale libica, che ha agito in collaborazione con la stessa Corte Penale Internazionale, lo accusa di torture e di un omicidio commesso nel principale centro di detenzione e riabilitazione di Tripoli, di cui era direttore.
Il paradosso è totale. L’uomo definito un “rischio per la sicurezza nazionale” in Italia, tanto da doverlo rimpatriare d’urgenza, si è rivelato essere un rischio per la sicurezza dei suoi stessi concittadini. L’Italia non solo non lo ha consegnato alla giustizia internazionale che lo cercava per crimini contro l’umanità, ma lo ha di fatto riconsegnato a un paese dove egli ha potuto, presumibilmente, continuare a commettere atrocità.
Oggi, è la Libia – un paese spesso descritto come instabile e frammentato – a fare il lavoro che l’Italia si è rifiutata di fare. È la Procura di Tripoli che arresta il torturatore, mentre la Procura di Roma si era impantanata in un “vizio di procedura”.
Questa vicenda solleva domande inquietanti che vanno ben oltre il singolo caso. Quali accordi esistono tra Roma e Tripoli che hanno reso così urgente la liberazione di un presunto criminale di guerra? La “sicurezza nazionale” italiana dipendeva davvero dal non disturbare un signore della guerra accusato di stupri e omicidi?
Il governo Meloni, che aveva cercato di chiudere la partita a gennaio con un atto di forza mascherato da necessità burocratica, si trova ora nudo di fronte ai fatti. La “figuraccia” di gennaio si è trasformata in uno smacco cocente. L’Italia ha scelto di non processare un uomo per crimini contro l’umanità; ora quell’uomo è accusato di omicidio nel suo stesso paese. Il “vizio di procedura” italiano assomiglia, ogni ora di più, a un vizio di coscienza.
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